Di seguito, vi proponiamo la sintesi dell’intervento della Presidente UNCC Avv. Laura Jannotta all’incontro organizzato da Aiga venerdì scorso a Siena, dedicato al tema delle Unioni civili e intitolato “Ddl s. 14 – Un approccio laico alla tutela dei diritti” .
«Il 21 luglio dello scorso anno la Corte Europea dei diritti umani (Cedu) di Strasburgo ha condannato l’Italia per violazione dei diritti umani perché, nonostante i numerosi solleciti delle sue Corti Superiori, non ha introdotto nessuna forma di riconoscimento delle coppie gay. I giudici hanno stabilito che “la mancanza di una norma che riconosca e protegga le loro relazioni “ viola il diritto al rispetto della propria vita privata e familiare” e hanno sollecitato l’Italia a colmare il vuoto normativo.
Il matrimonio è un “fatto istituzionale”, non riflette lo stato di natura ma le pratiche sociali e le tradizioni culturali storicamente predominanti nella sfera pubblica. In molti Paesi c’è il riconoscimento delle unioni omosessuali: da noi si sta affrontando tale tema; occorre evitare “dannose faziosità” ma la posta in gioco è alta e riguarda la stessa concezione della cittadinanza e del suo sistema di garanzie.
La visione eterosessuale è diffusa, ma fino a che punto è lecito imporre la propria concezione di normalità ad una minoranza che chiede riconoscimento e tutele civili?
Non si possono violare principi fondamentali della pari dignità e dell’uguale libertà: opporsi alle unioni di partner dello stesso sesso significa violare due volte i principi liberali: non si può impedire l’esercizio della libertà di sposarsi e di accedere ad uno status giuridico indispensabile per realizzare altri obiettivi.
I partner dello stesso sesso possono infatti subire interferenze nella loro sfera privata da parte di soggetti cui la legge conferisce maggiori ed esclusivi diritti: es. la successione ereditaria (le prerogative dei legittimari prevalgono su quelle dei partner), e la reciproca assistenza in caso di ricovero.
Solo il riconoscimento giuridico può rendere tal legame preminente rispetto ad altri.
Tutto ruota attorno ad una parola: matrimonio; la Chiesa deve difendere il matrimonio tra un uomo e una donna, lo Stato deve approvare norme che diano gli stessi diritti a tutti e le Unioni civili vanno quindi regolamentate. E’ avvenuto in tutta Europa, ad eccezione di alcuni Paesi dell’est.
Molte perplessità sull’istituto battezzato stepchild adoption, termine adottato forse confidando nella scarsa conoscenza dell’inglese, per cui poi hanno scritto la norma in lettere quasi incomprensibili con il richiamo: modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184..; l’ultima risorsa consiste nel sostituire l’adozione con un affido rinforzato, istituto sconosciuto al nostro ordinamento.
L’ipocrisia verbale è il cancro del nostro Paese: non solo nella sfera del diritto; l’uso di parole precise comporta impegno di onestà, altrimenti diventa impossibile lo stesso confronto delle idee: c’è sempre un qualche aggettivo inserito alla rinfusa per confondere le idee, le menti, nel linguaggio dei nostri politici e nel caso di specie forse c’è un tabù nel pronunciare “ matrimonio gay”.
Il disegno di legge è nato per il riconoscimento delle unioni civili. È stato un errore far entrare l’adozione: questo tema merita e meriterebbe di essere affrontato in modo adeguato ed approfondito: è un tema troppo serio per essere gestiti come effetto collaterale di una legge sulle unioni civili. Sono stati presentati due emendamenti: il primo prevede un preaffido di due anni dopo una convivenza di almeno tre anni, con un autodichiarazione per atto notorio che escluda il ricorso a forme di procreazione vietata; il secondo parla di un periodo di osservazione di due anni in cui il giudice vigila sul bambino adottato dai partner del genitore biologico.
Alcuni argomenti che abbiamo letto e sentito in questo dibattito e che ancora sentiremo ricordano quelli che circolavano alla vigilia del referendum sul divorzio: se si apre uno spiraglio, poi passerà di tutto.
La risposta dovrebbe essere la stessa: nessuno è obbligato a divorziare, nessuno è costretto a convivere. Ma se qualcuno vuole farlo, perché dovremmo impedirglielo? Una società democratica e aperta, liberale, ha il dovere di consentire che le persone scelgano come preferiscono vivere la loro vita. Nessuno obbliga nessuno e nessuno deve impedire agli altri di decidere quali tipi di rapporti intrattenere. La linea distintiva non corre fra coloro che credono in una fede e coloro che non hanno fede: passa fra coloro che desiderano garantire a tutti di scegliere secondo le loro credenze e preferenze e coloro che pretendono di imporre le loro credenze e preferenze».
Siena, 5 febbraio 2016