La riforma della giustizia civile è legge. Non ha convinto nessuno: si sono espressi contro, in ordine sparso e tra i tanti, il Cnf, la Associazione tra gli studiosi del processo civile, le Camere civili, la Anm, e il Csm ha definito “ben più sensata” la proposta elaborata dalla Commissione Luiso rispetto a questa tardiva riesumazione del non compianto processo societario. Forse per questo, un governo che può contare su di una maggioranza senza precedenti ha dovuto far ricorso al voto di fiducia per farla passare: tra l’autorevolezza che convince, e l’autoritarismo che costringe, si è scelto quest’ultimo. Peccato. Peccato per chi ha preferito imporsi, per non perdere tempo a condividere. Peccato per uno dei rami del Parlamento, costretto a ratificare decisioni prese altrove. Peccato per i cittadini, il cui desiderio di giustizia viene ormai visto con fastidio, come un intralcio al recupero del prodotto interno lordo. Naturalmente, io comprendo le esigenze della efficienza, di cui sicuramente c’è bisogno. Ma i Tribunali non sono aziende, i cui risultati si misurano solo in termini di efficienza: occorrono equità ed equilibrio, che richiedono ponderazione. I processi non sono generi alimentari, da smaltire quando diventano troppo vecchi: sono la vita e la storia di esseri umani. I diritti e le tutele non sono un freno agli investimenti esteri: sono il fondamento del patto sociale che garantisce la pace. Forse è per questo, che pur con tutte le sue inefficienze la democrazia resta il migliore dei sistemi: la necessità del consenso impone la ricerca della condivisione, che genera comportamenti virtuosi. Non basta cambiare le norme, se non si riesce poi a cambiare le prassi. Davvero qualcuno si illude che le sanzioni previste da una riforma imposta con la forza dei numeri, in mancanza di quella del consenso, potranno convincere i giudici a studiare i processi alla prima udienza, gli avvocati a puntare su chiarezza e sinteticità, ed i cittadini a transigere tutte le loro liti? Auguri.
Antonio de Notaristefani