11.10.2020 – I nostri processi civili si sono sempre svolti secondo prassi che hanno trasformato gran parte delle udienze in una mera occasione di rinvii, rimessi alla discrezione del giudice. Non mi capita spesso di vedere un calendario del processo (che pure sarebbe obbligatorio: art. 81 bis disp. att. c.p.c.) ed alzi la mano chi ancora ricorda che esiste una norma che impone che tra una udienza e l’altra non debbano passare più di quindici giorni (art. 80) o che la disposizione che obbligava il giudice a fissare l’udienza di precisazione delle conclusioni (art. 110) e’ stata soppressa un quarto di secolo fa. Per questo, mi viene da sorridere quando sento che si pensa di risolvere il problema della lunghezza dei processi assegnando ai giudici un termine perentorio per fissare la prima udienza: davvero qualcuno crede che basta dettare una norma perché la vita si adegui?
Mi pare che lo stesso distacco dalla realtà emerga dalla disciplina dei processi nella fase della emergenza, che pure ha raggiunto un punto di equilibrio che apprezzo: ben vengano videoconferenza e trattazione scritta, se sono opportunità offerte alla scelta dei Difensori.
Quello che non riesco ad accettare più sono le complicazioni inutili: qualcuno è in grado di spiegarmi perché mai ad ogni udienza dei processi a trattazione scritta bisogna depositare delle note in cui ci si limita ad insistere nelle richieste già formulate, note che il più delle volte non vengono lette da nessuno? Sarebbe così difficile stabilire che, se uno non ha nulla di nuovo da dire, non dice nulla, ed il giudice decide allo stato degli atti?
Si dirà: dettagli. Certo, dettagli. Ma che senso ha moltiplicare a dismisura il numero di quelle note e di quelle buste, e chi le aprirà se, come sembra ormai probabile, ci saranno altre misure restrittive?
E soprattutto: possibile che chi ha dettato le regole della fase della emergenza dei processi non si sia reso conto che stava introducendo una pletora di incombenti completamente inutili? Possibile che, ogni volta che c’è da decidere tra opzioni diverse, si scelga sempre la più complicata?
Io credo che, oltre alla scarsità di mezzi e di risorse, sia questo, e non il rito, il problema della giustizia civile: è stato Salvatore Satta a dire che i giuristi hanno orrore ad accettare la profonda semplicità della vita, e questo genera una disciplina cervellotica, forse ispirata dal desiderio di raggiungere una perfezione astratta che non è del mondo reale.
Non propongo una semplificazione: quando è stato fatto, le cose si sono complicate assai. Ma se davvero vogliamo che la giustizia civile recuperi la sua efficienza, come ci viene chiesto da più parti e come secondo me è ormai indispensabile, è venuto il momento di rendersi conto che è necessario che ad elaborare e proporre gli interventi legislativi ed organizzativi siano non più soltanto insigni giuristi, che hanno orrore per la semplicità della esistenza, ma anche persone che conoscano e quindi siano in grado di valutare l’impatto che la gestione dei processi può avere sulla vita dei cittadini. In fondo, la giustizia è amministrata in nome del popolo.
Antonio de Notaristefani