24 dicembre 2020 – Lo dico subito: per me, i Tribunali non sono aziende, le sentenze non sono prodotti, ed i diritti dei cittadini non sono merce. Per questo, non potrò mai condividere certe proposte della business community, che vorrebbe risolvere i problemi della giustizia esclusivamente in termini di efficienza: la giustizia, per poter essere tale, deve rispondere a criteri di equità, prima che ci si possa preoccupare della sua efficienza. Oggi, però, a mio parere si pone un problema di effettività della tutela, e quindi di equità. Non di efficienza. Non è effettiva, la tutela, quando chi ha ragione per ottenerla deve attendere tempi incompatibili con le sue necessità, e spendere molti soldi, rimborsati soltanto in parte per la esiguità delle liquidazioni poste a carico del soccombente. Non è effettiva, la tutela, quando molti, troppi provvedimenti giudiziari vanno alla ricerca spasmodica dell’effetto innovativo e sensazionale, che amplifichi a dismisura la notorietà della decisione e del suo estensore. Non è effettiva, la tutela, quando i continui mutamenti della giurisprudenza finiscono con il sopprimere la eguaglianza dei cittadini dinnanzi alla legge. Non è effettiva, la tutela, quando il numero dei giudizi troppo spesso trasforma le decisioni della Corte Suprema nella mera affermazione di un astratto principio di diritto, che prescinde dalla vicenda concreta, e quindi ad essa lo applica falsamente. Concordo con chi ritiene che la giustizia deve essere equa, prima ancora che efficiente; ma una giustizia che non garantisce una tutela effettiva equa non è. Per questo, si rende necessario un intervento organico che restituisca effettività alle bellissime, ma ormai forse divenute astratte previsioni contenute nella Costituzione: non serve a molto, garantire a tutti la possibilità di ricorrere per Cassazione, se poi la Corte non trova il tempo per occuparsi in maniera adeguata dei ricorsi di tutti. È un intervento molto difficile, perché dovrà incidere su privilegi consolidati ed abitudini stratificate, e soprattutto sul rifiuto di alcuni di rendersi conto che chi partecipa all’esercizio diffuso della giurisdizione, magistrato o avvocato che sia, rende un servizio a quei cittadini nel cui nome la giustizia è amministrata; ma è un intervento necessario, se si vuole recuperare la crisi di fiducia che negli ultimi anni ha indotto molti a rinunciare a chiedere giustizia. Le risorse che l’Europa ha messo ha disposizione dovrebbero consentire di sopportarne il costo economico; spero si trovi il coraggio di affrontare gli altri costi: se si vuole davvero una ripresa, bisogna che i cittadini e le imprese ritrovino fiducia in quella giustizia civile che serve a garantire la equità dei rapporti sociali, ed a tutelare la dignità e la indipendenza dei consociati, come la giustizia penale serve a tutelarne la libertà.
Antonio de Notaristefani