LE RIFORME DEL PROCESSO CIVILE, E LA TELA DI PENELOPE

Contrordine, compagni: nel PNRR, il filtro in appello non sarà più abolito, e anzi verrà “potenziato”. Sopprimerlo – dopo che la prassi lo aveva di fatto abbandonato, visto che aveva generato più contenzioso di quanto ne avesse risolto – era, secondo me, l’idea migliore del progetto del precedente Ministro, e forse l’unica che credevo avesse riscosso un consenso unanime. Mi sbagliavo, evidentemente. La formulazione della norma che lo aveva introdotto sfidava ad un tempo le regole dell’italiano, la logica aristotelica, e il principio del terzo escluso: “fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilita’ o l’improcedibilita’ dell’appello, l’impugnazione è dichiarata inammissibile…”. La Corte aveva immediatamente raccolto la sfida, dedicando un adeguato numero di sentenze ad analizzare se quella era una ipotesi di inammissibilità o di infondatezza, mentre i cittadini, i loro diritti, i loro doveri, i loro dolori, finivano relegati sullo sfondo, nella indifferenza di chi era troppo occupato a spaccare il capello in quattro. De minimis, si sa, non curat praetor. Ritorneremo a occuparci di quel filtro. Si torna indietro anche sull’autosufficienza del ricorso per cassazione: dopo che aveva mietuto migliaia di vittime innocenti, nel 2012 le Sezioni unite ne avevano dato finalmente una lettura in termini umani. Adesso, sarà “valorizzato”: altre migliaia di vittime innocenti?
Da anni, le riforme del processo civile ricordano la tela di Penelope: quel che un Ministro vuole sopprimere, il successivo vuole estendere o potenziare, e viceversa. È successo così con il procedimento sommario, che uno voleva applicare a tutti i processi, e l’altro eliminare. Adesso, accade così con il filtro in appello, o con l’autosufficienza del ricorso per cassazione, requisito che non ricordo di aver mai letto nel codice. Questioni opinabili, per carità, e magari le soluzioni concrete che verranno fuori dai decreti legislativi saranno anche condivisibili, come lo è l’intervento sull’Ufficio del processo. Ma è il metodo, che non riesce a convincermi. Il processo civile appartiene a tutti, perché serve a tutelare la eguaglianza dei cittadini e la equità dei rapporti sociali, e perciò si basa su di una serie di scelte di valore che devono nascere dalla condivisione, come dalla condivisione nacque il codice degli anni ‘40. Da troppo tempo, la condivisione di quelle scelte è considerata una perdita di tempo, e quel che uno fa l’altro vuole disfare. A volte, si sa, ritornano: confido che la ricerca di “una maggiore concentrazione, per quanto possibile, delle attività tipiche della fase preparatoria ed introduttiva” non celi l’idea di resuscitare il non compianto processo societario.
Antonio de Notaristefani

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